Quarantena

Apr. 20, 2020

Quarantena

Questa vista accompagna i miei giorni da ormai più di un mese. Era il 24 febbraio quando l’università ha chiuso, e non ho lasciato casa mia dal primo di marzo. Cinquanta giorni di quarantena iniziano ad avere un effetto sul modo in cui percepisco i miei dintorni. Ho iniziato a notare delle cose. La prima è stata la più evidente. Quando iniziai a non uscire di casa, era ancora inverno. L’albero, il cui tronco si staglia nello spazio che separa la mia finestra da quelle delle case di fronte, era ancora spoglio. I suoi rami marrone scuro poggiavano immobili sull’aria pesante di febbraio, come dita morte. Lentamente, i primi germogli hanno iniziato a spuntare. All’inizio erano pustole verdi, nascoste tra le intersezioni di quella corteccia dura. Poi hanno preso l’apparenza dei gambi e delle foglie. Ora una chioma scura mi impedisce di vedere oltre. E’ successo d’improvviso, nel giro di qualche giorno: eppure d’un tratto, era lì. Sono stato affascinato dalla forma di questo albero. Il verde intenso delle sue foglie che cambia con le ore del giorno. Di mattino, quando il sole batte sulla nostra casa da Est, il palazzo copre questa possente pianta con la sua ombra che, trattenuta all’interno, sotto la chioma, assume tonalità bluastre. A metà giornata, il sole irradia l’aria al di sotto, ed è uno spettacolo di luci ed ombre, poiché le foglie, che sono colpite dai raggi, si coprono di un giallo abbagliante, mentre in basso proiettano la propria ombra, che crea sull’asfalto un gioco di forme chiare e scure. Quando la luce calda batte sui profili della mia stanza, e il caldo mi sfiora la pelle, pare quasi di essere altrove. Al tramonto, nel giallo permeano gradualmente tonalità di rosso e arancio, e viola. Poi è di nuovo il momento del blu. Quando la sera è scesa, l’albero nasconde alle finestre delle case le sue sezioni più intime. La chioma riflette per qualche mezz’ora gli azzurri celesti, per poi scivolare nelle tenebre. Se piove, l’acqua cade sulla superficie liscia delle foglie, e da queste sgocciola in basso, su di altre foglie. Il suono di questo continuo sgocciolare è un ticchettio incessante, leggero, fragile. Ricorda gli scoppi di un fuoco accesso, o il rombo di un applauso udito in lontananza. Ed è forse questo il momento più bello, poiché la pioggia, il cui suono si somiglia un po’ in tutto il mondo, porta la mia mente lontano. Se si chiudono gli occhi, nulla vieta alla mente di immaginare di potersi trovare altrove. Ricordo la pioggia che cadeva, un anno fa, su quella pineta al confine Est della Korea University, mentre, nel bel mezzo della notte, ritornavo a casa. Tra i suoni del tardo giorno noto spesso anche le voci delle nostre ajumma, le vecchiette che vivono nei dintorni. Esclamazioni, domande, reticenze dal tono sospirato, battute sagaci, rimbalzano da un balcone all’altro in un’intermittenza di tonalità cantilenanti, e di timbri ora striduli, ora rochi. Sono una delle essenze di questi quartieri dove sono nato. Le loro voci preoccupate, i loro slanci di speranza, rievocano le angosce di generazioni passate, e l’origine violenta di questo Paese. Nel silenzio della quarantena, esse sono l’eco di una quotidianità passata.