Boutade

Mar. 13, 2021

Sake

Capita spesso di incontrare persone che lascino, sulla tabula rasa della nostra quotidianità, una impressione leggera, fuggevole, di cui ci si dimentica presto. Più di rado, invece, si incontra qualcuno che disprezziamo a viso aperto. A me è capitato il mese scorso.

Eravamo stati invitati a cena da un belga, S., che lavora qui a Tokyo. L’appuntamento era in un pub all’inglese e già questa prima cosa in sé mi aveva dato fastidio: perché cominciavo ad avere l’impressione che, con i miei amici europei, avessimo abbandonato l’ambizione di scoprire la cucina giapponese. Ci stavamo lentamente riabituando a mangiare all’occidentale (hamburger, frites con maionese, cibo “italiano”, ecc.), e questa scelta di uscire nell’ennesimo pub confermava il motivo del mio disagio. Presentandoci, S. mi parlò in italiano. Fu una bella sorpresa, perché non mi capita più spesso di parlare la mia lingua, e inizialmente credevo di aver incontrato un connazionale. In realtà, iniziai a notare già dopo pochi istanti uno strano accento, straniero, del centro Europa, che non riuscivo a identificare chiaramente. S. mi spiegò che era per metà italiano (emiliano) e per metà belga, ma che amava il Paese, dove era stato innumerevoli volte. Questa è una captatio benevolentiae a cui gli italiani sono, credo, in genere molto abituati.

Lui era cresciuto a Bruxelles, e si era trasferito a Tokyo a metà dei venti. Aveva iniziato a studiare giapponese a diciassette anni, per interesse personale. Anche se francofono, ci tenne a specificare che a Bruxelles tutti parlano due lingue, francese e fiammingo, e che nessuno si sentirebbe di dichiarare con fermezza la propria appartenenza all’una o all’altra cultura. Poi sottolineò che, in ogni caso, loro si sentivano superiori a entrambe. Questo genere di sarcasmo classista era un po’ parte del suo modo di socializzare: ogni osservazione si concludeva con una piccola battuta, tagliente, ma presentata con una tale innocenza da risultare ammaliante. In questo modo ci persuadeva ad accettare la sua narrazione del mondo, che era poi anche una narrazione di sé, e del suo essere migliore rispetto agli altri. Naturalmente aveva studiato in una business school nel suo Paese, e ricordo che quando Willem gli chiese quale, lui rispose:

“la migliore”.

Le faide tra diverse scuole, in rivalità per aggiudicarsi il titolo di migliore università in una certa Nazione, sono una costante in ogni parte del mondo. In Belgio, però, esse assumono una connotazione linguistica: perché ognuna delle due parti (francese e fiamminga) reclama la superiorità delle proprie università su quelle della parte opposta. Così l’università di Lovanio (fiamminga) compete con quella di Louvain-la-Neuve, e la business school di Solvay, a Bruxelles, con quella di Vlerick, a Ghent.

La fatidica domanda sull’università venne posta anche a me. Due anni fa, questo genere di domande mi avrebbe toccato sul vivo. Il modo in cui fu posta fu particolarmente interessante: perché S. non mi chiese dove studiassi, ma lo ipotizzò da solo. Dopo avergli detto che ero di Milano, e che studiavo economia, mise l’indice sul mento e cominciò a pensare.

“Milano, economia, dunque Bocconi, giusto? Perché le altre sono un po’ di basso livello”.

Anche se con molta eleganza, la frecciata era stata scoccata. Se a quel punto il caso avesse voluto che io non fossi effettivamente uno studente bocconiano, quella sua osservazione avrebbe, indirettamente e in modo molto innocente, già stabilito una chiara gerarchia tra me e lui. Un po’ in malafede, sono convinto quindi che fosse un po’ dispiaciuto quando gli confermai che la sua ipotesi era corretta.

Purtroppo non furono il sarcasmo o le uscite narcisistiche a suscitare il disprezzo di cui ho parlato. Ma alcune osservazioni fatte proprio sulla città da dove lui veniva, e su come alcuni dei suoi quartieri fossero ormai fuori controllo, in mano ad una criminalità che, a detta sua, andava estirpata, e schiacciata con la più pesante delle repressioni. Perché questi criminali, ovviamente tutti stranieri e provenienti da quei paesi “con un QI basso”, questi criminali rovinavano il buon nome della città di Bruxelles. Uscite di questo genere denunciavano la sua origine borghese, e l’appartenenza ad una corrente di pensiero più o meno precisa. Era uno di quei liberali di destra, convinti che tutti nascano in un modo o nell’altro con gli strumenti sufficienti a costruirsi un proprio successo, e che la colpa non è che loro se questo non accade. Magari uno di quelli che ammirano il Giappone come una società pura, che non si è lasciata corrompere da altre razze o religioni, e che vedono in questo fattore la chiave del successo di questa Nazione nel mondo. D’altronde, la sua ossessione per il QI tradiva una tendenza tipicamente conservatrice, ossia quella di essere affascinati da tutto ciò che, misurabile, dia l’impressione di essere eterno ed immutabile. Il QI è indubbiamente uno degli oggetti di questo fascino, e non a caso fa sempre la sua comparsa quando, nelle argomentazioni dell’estrema destra in Occidente, si debba giustificare la superiorità di un qualsiasi gruppo rispetto ad un altro: del bianco rispetto al nero, dell’uomo rispetto alla donna, o in questo caso, del belga rispetto all’arabo.

Mi fece sorridere quando si mostrò sinceramente dispiaciuto del fatto che l’Italia avesse uno dei QI medi più alti d’Europa. Dispiaciuto perché gli italiani, con il loro QI alto, si meritavano come popolo una posizione migliore nel mondo di quella che il Paese, infossato da secoli nei soliti problemi, era riuscito ad ottenere. Sui colpevoli di questa ingiustizia, poi, non c’erano ovviamente dubbi: uno Stato troppo forte che, con la sua burocrazia sanguisuga (protetta da una classe politica di sinistra), scialacquava le risorse del Paese, non permettendo a chi aveva le conoscenze e lo spirito adatti di investirle nel modo migliore e più efficiente per tutti. In altre parole, una tassa sui redditi proibitiva, che praticamente era equiparabile al furto.

Anche se durante il nostro primo incontro non potevo rispondere a questa sorta di deliri autocommiseranti, la seconda volta che uscimmo, Freud venne in mio soccorso. Perché, con molta innocenza e grazia, finii per essere il protagonista di un chiaro esempio di atto mancato. Eravamo già al primo litro di birra, e senza aver cenato, iniziavo a far poca attenzione ai miei gesti. Fu così che, nel tentativo di scomporre uno yakitori, staccando i pezzi di carne dallo spiedino e disponendoli su un piatto, mi trovai a fare più fatica di quello che avevo pensato. E a furia di tentare di staccare l’ennesimo pezzo di carne, lo spiedino mi scivolò sul piatto, facendo schizzare tutto l’olio ed il grasso sul malcapitato S., che era di fronte a me. Mi scusai sinceramente per l’errore, e poi, con estremo piacere, mi godetti lo spettacolo di vederlo, tutto stizzito dopo avermi detto che non c’era problema, pulire gli innumerevoli aloni di unto che, come gli schizzi di un pittore, si erano distribuiti meravigliosamente sulla sua Lacoste azzurrina.