Una descrizione dettagliata della mia stanza a Meguro, a tre settimane dalla mia partenza. Parte prima: il letto e i suoi dintorni.
Il mio letto a Meguro è di fatto una branda in metallo verniciato di bianco. Sulla rete è posato un materasso di circa venti centimetri di spessore. Non c’è coprimaterasso. Il materasso è piuttosto duro al contatto, in perfetto stile asiatico. Su di esso è steso un futon color crema, tinto con una fantasia di quadrifogli e foglie di pesco. La stessa fantasia che decora il cuscino e la coperta. Sul futon giacciono indumenti intimi usati, grigi, e due pantaloncini da ginnastica, anch’essi grigi. Spesso vi è posato anche il cellulare, con attaccati un paio di auricolari neri.
Sul pavimento, accanto al letto, un rotolo di carta igienica. Diversi fazzoletti usati e lasciati per terra. Tre bottiglie di birra belga; in ordine di consumo: Westmalle, Delirium e Brugsezot. Una bottiglia di oi-cha da due litri, quasi interamente consumata. Il tè al suo interno, torbido, ha un colore paglierino. Una ciabatta bianca connette con un lungo cavo la presa di corrente dietro la testa del letto a vari dispositivi: in primis, un convertitore universale, a cui sono sempre attaccati un cavo USB ed un caricatore, nero, HP. Sul pavimento, vicino al rotolo di carta igienica, una piccola macchia scura, appiccicosa. E’ ciò che rimane di una birra inavvertitamente calciata a terra da un piede femminile, e dei fazzoletti usati nel tentativo di asciugarla.
Accanto alle birre, appoggiato al muro, il mio vecchio zaino coreano, “Supercomma B”, che comprai scontato in un designer outlet, da qualche parte a Seoul. Grigio chiaro, e con lo schienale nero, con un nastro che porta impresso in caratteri bianchi, cubitali, il nome della marca. Sul cappuccio è agganciato un portachiavi d’alluminio: è un uomo vestito con l’hanbok regale, rosso, e con un’alta corona sul capo.
A destra del letto, a ridosso della parete, una piccola libreria. Nel cassetto a livello del suolo, una costruzione di buste, astucci e borsette incastrate l’una dentro l’altra, in attesa di essere riutilizzate poco prima della partenza. Più sopra, un phon blu, comprato al Tokyu Store di Hiyoshi per meno di duemila yen. Alla sua sinistra, una pila di pantaloni e pantaloncini, piegati e riposti l’uno sull’altro. All’ultimo piano, sulla sinistra, un piccolo foulard verde che commemora la festa di San Patrizio, di gusto orribile, ancora nella sua confezione di plastica, ricevuto in offerta al pub vicino al Tokyo Dome, a Suidobashi. Poggiate su di esso, una collezione di mini polaroid scattate in varie serate lo scorso febbraio e marzo. Più in risalto, accanto ad esse, la stampa di una fotografia di me con i miei amici seduti in un bar in Porta Garibaldi, nell’estate del 2020. Nello scaffale accanto, tre lettere, posate l’una sull’altra, ricevute in tre tempi diversi: la prima, sul fondo, in una busta a tema floreale, è di metà febbraio. La seconda, in una busta rosa, risale al luglio 2019. L’ultima l’ho ricevuta qualche giorno fa. Finalmente, poi, tre libri. Il primo, isolato sulla parte sinistra dello scaffale: Armi, acciaio e malattie di Diamond. Sulla destra, appoggiati l’uno sull’altro: un’inchiesta sulla grande carestia cinese del 1958-1962, e un libro in cinese per bambini. 你今天真好看. Appoggiati ai libri, alcuni fogli di carta di riso piegati su se stessi. Su di essi, un pennello dipingeva, due mesi fa, le lettere del mio nome: 白宇轩. Un piccolo cartoncino bianco, decorato con la stampa di due rondini colte in procinto di posarsi sui rami di un pesco, riporta scritta a mano una vecchia poesia di Wang Wei,
红春愿此
豆来君物
生发多最
南几采相
国枝撷思
Sul ripiano della libreria, una bottiglia d’acqua quasi piena, tre lattine di birra Sapporo da mezzo litro, due di lemon sour da .33, una bottiglia di cava verde, vuota, con l’etichetta nera, un tubo di deodorante spray, tre pacchi e una scatola di fazzoletti, il mio e-book, nero, tre monete da un euro, una da cinque centesimi e circa un centinaio di yen in monete da uno d’alluminio.