目黑室(下)

Jul. 9, 2021

Sunset

Una descrizione dettagliata della mia stanza a Meguro, a tre settimane dalla mia partenza. Parte seconda: la scrivania.

Su ognuna delle mie scrivanie a Tokyo provai ad imprimere un senso d’ordine, per illudere me stesso del fatto che un giorno le avrei davvero utilizzate. Con l’ultima l’ordine è stato mantenuto piuttosto bene, e c’è ancora un po’ di spazio libero nella parte centrale del tavolo.

La scrivania ha un corpo di metallo, verniciato di nero, con un sottobanco estraibile, polveroso, che non ho mai usato. Il tavolo è in vetro, riflettente. Sulla superficie, in controluce, si notano parecchie ditate, e aloni di sporcizia dalle cene passate. Nella sezione sinistra ho posato il mio quaderno azzurro, che avevo dedicato agli appunti di macroeconomia e analisi di serie storiche. All’ultima pagina del quaderno, spiccano una dozzina di parole scritte in cinese, ciascuna accompagnata dalla sua traduzione in inglese. Uno dei ricordi della mia amica Jing, e delle nostre lezioni di cinese ormai quasi un anno fa in Bocconi.

Sul quaderno azzurro appoggio sempre la mascherina. In questo periodo indosso quelle  di design, finte, grigie e di un tessuto sintetico, spugnoso. Naturalmente, è del tutto inutile come protezione dal virus. Come in molti altri ambiti della vita, la mascherina rappresenta un simbolo della conformazione alle regole del gruppo. La si vuole indossare, perché toglierla rappresenterebbe un gesto di ribellione troppo evidente nei confronti della società. Ma non la si vuole indossare, perché fa caldo, e pesa, e non si respira a Tokyo con la mascherina. Allora tanto vale indossarne una finta, con stile. Vedo queste mascherine ovunque, da dicembre. I ragazzi le indossano in genere nere o grigie, le ragazze color crema o rosa pallido. All’inizio li giudicavo. Io ero arrivato con le FFP2 prodotte in Cina. Quando andai a tagliarmi i capelli la prima volta, dopo quattordici giorni di quarantena trascorsi a Shinjuku, la parrucchiera aveva timore a farmi lo shampoo con la mascherina addosso. Aveva visto il filo di alluminio pieghevole sul naso, la forma a becco. Mi aveva chiesto se non fosse meglio che la togliessi, dato che sembrava una maschera ‘speciale’. Dopo un mese di permanenza qui, avevo anch’io adottato la moda delle mascherine finte. Ne ho sempre comprate da allora, e le indosso quasi sempre. Non fanno troppo calore, sono leggere, e danno un non so ché di ribelle, di pericoloso.

Accanto alla mascherina, una scatola di latta che potrebbe ricordare una confezione di sigari, di colore giallo acceso, contiene in realtà del tè cinese Jasmine, sfuso. L’ho comprato con un’amica a Ikebukuro, settimana scorsa. Lei mi ha detto che basta metterlo in una tazza con dell’acqua bollente perché sia pronto in pochi minuti, ma dopo averci provato il risultato è stato alquanto deludente. Ho la sensazione di avere un pessimo rapporto col tè: ne possiedo ormai quattro varietà in quantità generosa, e non ne bevo mai, perché non ho mai la pazienza per prepararlo. E perché ormai, in ogni caso, l’inverno è passato e fa troppo caldo. In compenso, ho ricomprato una bottiglia da due litri del mio tè freddo giapponese preferito, che adesso svetta sulla parte sinistra della scrivania, vicino al quaderno, come un’enorme torre. E’ l’Oi-Cha della Ito-En, che bevo ormai da mesi in quantità industriali. L’etichetta ha un colore verde scuro, invitante, e porta impressa una scritta che ha quasi carattere profetico: riduce grassi corporei

Ad accompagnare questi oggetti ve ne sono altri due a cui tengo molto. La prima è una confezione di biscotti coreani al cioccolato, che ho comprato a Shin Okubo (la città coreana) un mesetto fa. Sono i biscotti che Alex portava costantemente con sé nel proprio zaino, quando eravamo in Corea. Un ricordo indelebile di quei mesi, a cui, avendo notato una confezione sullo scaffale di un supermercatino turistico, non ho saputo resistere. E di fronte ai biscotti (ce ne sono ancora almeno quattro), il mio primo mazzo di carte Hanafuda. Le ho comprate in un celebre negozio di giochi da tavolo, a Jimbocho. Pensavo che sarebbero state le protagoniste delle mie ultime sere a Tokyo. In realtà, non le ho ancora aperte. Non riesco a trovare una singola persona che conosca le regole di questo gioco, quando in Corea pareva essere piuttosto famoso.

Spostandosi sulla destra del tavolo, continuano a carrellata i fluidi. In primis, il mio spray disinfettante per la gola, che ormai uso dalla primavera del 2019, quando avendo preso la mononucleosi ero diventato un paranoico della pulizia delle vie orali. Nella stessa categoria, spicca isolato al centro della scrivania il mio spray nasale (allo zolfo). Alla sua destra, una borraccia di design, che ho comprato l’anno scorso alla Rinascente. Completamente traslucida, di forma quadrangolare, pare quasi una bottiglia di vodka. Dato che bevo sempre tè, è ormai lì ferma, vuota, da mesi. Continuando verso destra, due differenti bottiglie di whiskey. Uno è uno Chivas Regal, invecchiato 12 anni, che ho ricevuto in regalo dal mio capo durante il tirocinio. L’altro è un Nikka “Black”, marchio di Hokkaido, che ho trovato una sera mentre tornavo a casa, abbandonato a lato del marciapiede sulla Meguro-dori. Doveva essere caduto dalla borsa di qualcuno, e l’ho portato a casa.

Il resto della scrivania è popolato da oggetti noiosi, inutili. Un cilindro di colla, un rotolo di scotch. Un pacchetto di fazzoletti e un righello metallico. Due bacchette gentilmente donatemi dal kombini, che posano sul mio certificato di vaccinazione dal virus, e su un quaderno giallo, che usavo per gli appunti di statistica bayesiana e di machine learning. Fanno eccezione tre gadget che ho raccattato nei miei primi mesi di esaltazione qui in Giappone. Il primo è un giocattolo di plastica, un gattino retto con le zampe anteriori unite in posizione di preghiera: acquistato per 300 yen in un distributore automatico ad Eno-shima. Il secondo, una piccola tazza di plastica per bere il sakè, comprata in un analogo distributore ad Akihabara. Al suo interno, la figurina di un rii-man giapponese,  ubriaco fradicio, con la cravatta arrotolata intorno alla fronte, e la ventiquattrore nera caduta per terra. Un oggetto di cui ancora non ho compreso lo scopo. Infine, le mutandine di qualcuno, che ho comprato, sempre ad Akihabara, per duemila yen. Un souvenir di cui un po’ mi vergogno, ma che non potevo non avere. Nel celebre sex shop “Pop Life” ad Akihabara, le vendono al piano interrato, in un distributore automatico. Diverse qualità e varietà sono disponibili, per diversi prezzi. Le più economiche vengono a mille yen, per i tirchi. Quelle da duemila non si sa bene perché, ma devono avere qualcosa di speciale, che giustifichi il premio del prezzo. Poi ci sono due categorie deluxe, da tremila e quattromila yen, che vengono vendute in confezioni sotto-vuoto. Osservate lì, immobili, dentro il vetro che le protegge all’interno del distributore, questi pacchetti grigio scuri hanno quasi un’aria intimidatoria. Le si scruta con il senso di stupore e di mistero che si provano ammirando i capolavori di un museo archeologico. Quelli che, destinati all’oblio, si è riusciti come per miracolo a strappare all’azione distruttrice del tempo, e che ora, puliti, risplendono in tutta la loro lucentezza, testimonianze di una raffinatezza passata. Cosa mai potrà giustificare una mutandina da quattromila yen?