I giorni trascorrono, senza sosta, identici l’uno all’altro, mentre aspetto di sapere cosa farò nel resto di questo anno nuovo, il 2022. Senza un obiettivo chiaro, senza nulla di significativo in cui impegnare il mio tempo e le mie energie, ogni ora si assomiglia, e inizio a sentirmi - fatalmente - inutile. Ho iniziato a pensare che la mia educazione è stata un enorme spreco di risorse. Non per me, che ne ho beneficiato, ma per gli altri, a cui non ho ancora restituito nulla. Ho l’impressione di vivere a debito, non solo della mia famiglia, ma del resto della società, a cui non contribuisco. Alterno le ore tra letture affascinanti, ma di natura puramente amatoriale, ed intere stagioni di MasterChef divorate su YouTube. Con la scusa di rendere il mio cazzeggio più costruttivo, ho iniziato a guardare le puntate di MasterChef cinese, cercando di allenare l’ascolto. Ma, onestamente, ormai anche lo studio dei caratteri, che era il grande passatempo scoperto durante la pandemia, inizia a diventare una routine alienante, un automatismo.
La realizzazione, che mi ha colpito improvvisamente da un mese a questa parte, è quella di aver ormai inevitabilmente concluso una fase della mia vita. Con la laurea si è chiuso un percorso che iniziò, in un certo senso, al primo anno di scuola elementare, quando coi miei coetanei imparai l’alfabeto, e come scriverne ogni lettera in tutti i suoi stili, compreso il corsivo maiuscolo (che non ricordo più). Ora io e loro siamo ufficialmente estranei al sistema educativo. Anche chi poi proseguirà verso un dottorato sa bene che non è più lo stesso. Si tratta adesso, in un modo o nell’altro, di lavorare: che il lavoro sia interno od esterno all’accademia ha minore importanza. La tristezza consiste nella consapevolezza della conclusione di una fase spensierata della propria vita, quella in cui si era ancora impegnati a costruirsi. L’impressione è che la “costruzione” sia ormai conclusa, e che bisogna far funzionare questo artefatto, questo assemblato finale, un po’ così com’è.
Compilare questo registro di vita personale, questo delirio egotistico che per fortuna nessuno legge, è in fin dei conti uno dei piccoli piaceri creativi che mi rimangono. E così, ho deciso di collezionare nella stessa pagine le fotografie di alcuni dei luoghi che hanno segnato la mia istruzione, nel bene o nel male.
Il Politecnico di Milano. Una specie di girone infernale, luogo di strazio e sofferenza, dove trascorsi otto mesi illudendomi che la mia più grande aspirazione fosse quella di diventare un ingegnere fisico. Ma anche il luogo dove decisi che non lo sarei diventato. Piazza Leonardo - che prima dei lavori di ammodernamento appariva più rustica, più grigia di quella in foto - il luogo dove ho passeggiato innumerevoli volte, con alcuni dei miei amici più cari; le persone fondamentali della mia vita. Il luogo dove molti di loro si sono formati, per poi cercare ed intraprendere la propria strada.
Pavia. L’eterno rimorso. L’insicurezza, il timore di aver sbagliato tutto. Gli interminabili viaggi in treno, in ogni stagione dell’anno, attraverso la campagna piatta, sconfinata. Il luogo che più di tutti mi fece sentire a disagio, ma anche quello che più di tutti mi spinse al riscatto. La scoperta dell’antico mondo accademico italiano - quello dimenticato dei teatri anatomici - così erudito, e così lontano dall’ambiente delle università milanesi. La scoperta della lingua cinese, che ha cambiato la mia vita e il modo di vedere il mondo. Tante ore investite nello studio: quello piacevole, ma anche quello matto e disperatissimo, spronato dall’ansia e dalla voglia di emergere. Tante ore spese quasi sempre da solo.
Hanyang. La scoperta del mondo extraeuropeo. Il primo contatto con la Corea, questo paese così strano e magico. Ricordo meglio di ogni altra cosa i miei compagni di classe: coreani, singaporiani. Avevo l’impressione di essere circondato da menti sensazionali. Affrontavano i problemi della matematica, della fisica, dell’ingegneria con un’eleganza e una semplicità disarmanti. Ero pieno di ammirazione per loro. Imparai che a qualsiasi ora della notte, a Seoul, c’è qualcuno che studia.
Go-de. Forse l’unica università di cui mi sono davvero sentito parte: con orgoglio, e senza sentimenti contradditori. La realizzazione del mio sogno di tornare in Corea. Non lo sapevo allora, ma qui avrei trascorso uno dei semestri più intensi della mia vita: non solo dal punto di vista umano, ma anche accademico. I corsi che seguii allora furono, a tutti gli effetti, fra i più ardui del percorso di studi. Ma lo sforzo non pesava, perché era spontaneo, e premiato dagli entusiasmi di una vita concentrata attorno al campus - uno stile di vita universitaria che non avevo mai conosciuto prima. Un teatro di tensioni romantiche.
La Bocconi: il tanto agognato traguardo. Un luogo pieno di studenti come me, e con i quali non ho mai saputo legare. La nemesi delle università italiane, dove ogni risorsa era già messa a nostra disposizione. Qui ho provato il piacere di studiare avendo l’apprendimento come unico obiettivo. Qui ho tastato con mano cosa si prova ad appartenere al mondo delle élite, senza mai davvero entrarne a far parte. Il luogo dove, malgrado tutto, ho spinto le mie capacità intellettive al loro limite, ma anche quello dal quale, consumato dalla competizione, mi sono allontanato con la prima occasione utile. Alla fine, ho trascorso fisicamente in questa università poco più di un semestre.
Keio. Una università strana, della quale sono stato studente per un anno senza averne l’impressione. Più che tra le pagine dei libri accademici, che pieno di superbia consideravo ormai privi di utilità, trovai opportunità di apprendimento tra le vie di Tokyo, che attraversai tracciando un sentiero altamente personale, e seguendo un percorso inevitabilmente unico; un’esperienza che solo una città del genere può offrire. Qui ho incontrato tante ombre umane. Tante persone la cui vita si era scontrata - per un istante impercettibile - con la mia: un contatto effimero, che ci avrebbe lasciati entrambi al resto delle nostre vite. Qui, per la prima volta nella mia vita, sono stato seduto alla scrivania di un ufficio.