Durante la quarantena di Taipei

Apr. 14, 2022

Linsen

Solo, in un hotel, in una città sconosciuta e a migliaia di chilometri di distanza da tutte le persone con cui io abbia mai costruito una relazione. Solo, in un paese di cui non so nulla.

Guardando il tg della mattina, cerco di indovinare il significato di alcuni dei caratteri tradizionali che, rapidissimi, scorrono sullo schermo del televisore. Sono così complicati, questi caratteri tradizionali. E il loro mandarino, è strano. A volte trasmettono pubblicità in una lingua che non riconosco, forse Hokkien o Hakka. Oggi, mentre cenavo, guardavo il telegiornale su un canale nuovo, che ho trovato stasera: si chiama TITV, Taiwan Indigenous Television. Il giornalista parlava un dialetto che, davvero, sono sicuro di non aver mai sentito prima: credo sia il dialetto indigeno dell’isola.

Questa è un’altra Asia. Pensavo di essermi abituato a vivere qui: quasi, mi ero illuso di appartenere più a questo continente che a quello dove sono nato. Eppure credo di essere questa volta di fronte a qualcosa di diverso dalla Corea o dal Giappone: è una cultura nuova, o meglio, un mix di culture, una specie di melting pot cinese. Perché Taiwan è, almeno in superficie, senza ombra di dubbio un’isola cinese. Lo si intuisce subito, guardando fuori dalla finestra del mio hotel. I palazzi, le strade, sono insozzati di quella patina grigia che ricopre anche i grattacieli di Hong Kong. Ma all’interno di questa corazza cinese sembra celarsi un corpo più eterogeneo, una sostrato di lingue e culture diverse, accumulate dai popoli che, approdando su queste sponde secolo dopo secolo, le hanno portate con sé.

Ogni tanto assaporo la libertà guardando le persone passeggiare sulla strada di fronte al mio hotel. Nella moda e nello stile in generale, Taipei sembra aver mantenuto un certo feeling con i colonizzatori giapponesi. Alcune delle ragazze che passeggiano qui le avresti potute incontrare benissimo in un vicolo di Shibuya. E il tassista che mi ha accompagnato all’hotel dall’aeroporto sembrava uscito da uno di quei pachinko che affollano Shinbashi, la città dei riiman. Tutti hanno però, allo stesso tempo, un’aria un po’ più sguaiata. Mi sembrano più tranquilli, più rilassati. Forse, rispetto ai giapponesi, qui si prendono meno sul serio.

Cerco gli appartamenti online e deduco che sarà difficile trovarne uno che si avvicini all’immagine ideale che mi sono costruito. Ho scoperto che qui, per trovare sollievo dal caldo, preferiscono il pavimento in piastrelle rispetto al parquet. Ma il mio appartamento avrà il parquet, e su questo dettaglio ho deciso di non poter transigere. Il sogno sarebbe un piccolo appartamento in stile giapponese: con un tavolino da tè in mezzo al salotto, basso, da sedersi per terra a gambe incrociate. Non disdegnerei dormire su un futon, ma mi rendo conto di essere in un altro paese, e devo accettare che di questo aspetto della cultura nipponica, se mai ve ne fu traccia qui, non sia rimasto molto.

Il cibo dell’hotel non lascia scampo: si deve mangiare quello che hanno qui. Ogni pasto sfida quello precedente per la quantità di ingredienti che non riesco ad identificare. In generale, mi rendo conto che per la prima volta sto provando il vero cibo cinese. La frutta qui ha un sapore diverso: è fresca, tropicale, buonissima. Ne mangio di tutti i colori, tagliata in tutte le forme, e presentata sempre nella stessa vaschetta di plastica.

Mentre vivo questi giorni di solitudine e isolamento, sono attraversato da sentimenti contrastanti. Sono felice di essere qui, di aver finalmente coronato il sogno di vivere in Cina. Ma sono anche solo, e la mia mente non riesce a separarsi dalle persone che ho lasciato in Italia. C’è un senso di colpa latente che sento di avere nei loro confronti, e che non riesco ad ignorare. Non ho mai voluto chiamare tanti numeri di telefono come negli ultimi tre giorni. Soprattutto quando arriva la sera, e le strade si fanno buie e deserte, e solo i taxi girano per la strada sotto la mia stanza d’albergo: proprio allora il cuore mi porta indietro nel tempo, in altri spazi, nei luoghi che appartengono già alla memoria.