Rileggo i vecchi post di questo blog, e penso a quanto goffe le parole usate, quanto imprecisi i concetti espressi in inglese, questa lingua che tutto sommato è pur sempre stata straniera. Non riuscire ad aver dato forma ai propri pensieri, non averne riprodotto il profilo in modo esatto, risulta fastidiosissimo anche anni dopo. Per questo post, provo ad usare la mia lingua madre.
Tornare in Giappone è stato come tornare indietro nel tempo di due anni, quando ero ancora uno studente. Se non che questa volta non ho vissuto a Hiyoshi, la sede del campus della Keio nella prefettura di Kanagawa, celebre per il colore degli alberi di ginkgo in autunno, né a Meguro, in quella che era stata la mia casa dei divertimenti a Tokyo per tre fugacissimi mesi. Questa volta ho vissuto a Kawasaki, a casa di Audrey.
Audrey si è trasferita Giappone col mio stesso contratto, in un’azienda francese. La promessa di una vita simile a quella di quando eravamo studenti si è, anche per lei, quasi subito estinta. I problemi col ragazzo sono iniziati quasi subito dopo l’arrivo di lei. Per lei questa è la prima relazione, le aspettative erano alte, altissime. Forse erano aspettative irraggiungibili, di quelle che coronano ogni prima relazione. Lei voleva passare del tempo con lui, cucinare insieme, guardare la tv, vivere in coppia l’avventura del Giappone: ma non aveva considerato di stare, d’altronde, con un uomo, ed un uomo giapponese, per giunta. Lui pensa ora a scalare le gerarchie della propria azienda, ad un trasferimento per lavoro all’estero, che non necessariamente includerà lei.
Lo capisco: non c’è nella nostra generazione un giovane uomo adulto con un po’ di esperienza che non si sia ad un certo punto trovato a dover scegliere tra il proprio futuro e quello della coppia. E a venticinque anni, in questo mondo, non si sceglie mai la coppia. Lui ha il merito, io credo, di essere stato più sincero con lei di quanto io sia mai stato con nessuna. Le disse già quasi un anno fa che aveva in testa un’altra, che la stava tenendo buona solamente per non star da solo. Che attendeva una buona opportunità con un’altra donna, o la richiesta di un trasferimento all’estero, per scaricarla.
E lei… con che coraggio sia rimasta, non lo capirò mai. Temevo che giungendo in Giappone nel mezzo di una situazione del genere, il mio soggiorno si sarebbe rivelato fuori luogo, come a tratti è parso essere. Ho cercato di lasciarli il più possibile da soli, e quando ero con loro, ho cercato di ricreare quell’illusione di spensieratezza che aveva caratterizzato il particolare contesto in cui noi tre, tutti, ci eravamo conosciuti. Era stato dopo una sera in discoteca, a ingurgitare ramen alle quattro del mattino. Lui e l’amico erano con altre due ragazze, ci avevano invitato a unirsi a loro per un karaoke: noi, che al karaoke – quello vero, giapponese – non ci eravamo mai stati. Quello era stato l’inizio della loro storia. Lui l’aveva corteggiata per mesi: la voleva, a tutti i costi. Un giorno avevano preso un caffè insieme ad Akihabara. Lui aveva trascorso il pomeriggio con lei, poi l’aveva invitata a cena. Dopo la cena, un drink da qualche parte, e lui aveva perso l’ultimo treno. Avevano trascorso la notte insieme, senza, beninteso, che fosse successo nulla di ché. Poi il giorno dopo, la stessa storia: un caffè, un sushi da qualche parte, e tante, tante infinite chiacchiere. I sorrisi di lui che intercedevano gentilmente alle dolci risate di lei. E poi, di nuovo, aveva perso l’ultimo treno. Alla fine del loro primo appuntamento, erano stati insieme due notti e quasi tre giorni interi: settantadue ore.
Era tanto l’ardore con cui la inseguiva allora quanta quasi l’indifferenza con cui ora, in certi momenti, la trattava. Fin dai primi giorni dopo il mio arrivo lei era stata, visibilmente, a disagio. Mi aveva già raccontato per telefono, mesi prima e in lacrime, le ragioni della crisi. Lui che, in sostanza, se la teneva buona, mentre dirigeva la propria vita verso orizzonti che non la prevedevano più. Lei che, constatando inerme di stando perderlo, era improvvisamente sprofondata in un amore ossessivo, geloso ed irrimediabile. Un classico.
Una sera di quelle che ero lì, finalmente, litigarono: e che litigata. Eravamo usciti noi quattro – loro due, io e l’altro amico suo – a mangiare e bere qualcosa in un locale gestito da ex-compagni di college di lui. Un posto della Tokyo bene, su un angolino di Shibuya, vicino ai binari della ferrovia Yamanote. Passeggiandoci accanto, prima di entrare, avevo guardato all’interno da una delle grandi vetrate traslucide che circondavano il ristorante. Dentro c’erano un fracco di vecchi compagni di università, che sghignazzavano tra di loro al bancone, già rossi come peperoni, con dei boccaloni di birra in mano. Uno vestito più all’ultimo grido dell’altro, tutti con un certo non so che, dato forse dal taglio di capelli, dagli hoodie firmati, o dagli occhiali da sole, che alcuni ancora portavano nonostante fosse ormai notte inoltrata. Era tutto un circolo di gente di Kobe, ragazzi della buona borghesia, gente che era stata abituata durante la propria vita a spendere valanghe di soldi in ogni sorta di vizio od amenità a cui toccasse il turno di far impazzire la bella gioventù del tempo.
E c’erano poi due ragazze, una più bella dell’altra. Separate dal resto della compagnia, stavano sedute a un tavolino, sole, sorseggiando cocktail con il fare di quelle che sanno di essere guardate. Ce n’era una in particolare, che avevo notato. Mi dissero poi che era l’attrice in non so quali serie minori, che aveva lavorato per la televisione. Quella sera indossava una camicetta di seta bianca, appena una mezza taglia più larga. Un paio di occhiali, di quelli di moda ora, con le lenti grandi grandi, quadrate, e la montatura nera, spessa, da secchiona. Poi, di sotto… una gonna di pelle nera, piuttosto corta e che scendeva giù dritta a tubo, ad esaltare quel breve assaggio di voluttà delle due cosce nude, che subito si tuffavano in un paio di stivali, anch’essi di pelle nera, lunghi e slanciati. Tutto un campionario di capi di abbigliamento, presi nuovi di stagione in chissà quale boutique a Omotesando… che glieli si sarebbe voluti strappare di dosso tutti quanti insieme, quella sera lì.
Lei l’aveva notata. O forse aveva notato che noi tutti, il ragazzo suo incluso, l’avessimo notata. Fatto sta che a un certo punto lui aveva preso, si era alzato dal tavolo e ci aveva mollati lì, a chiacchierare con i suoi stessi amici, mentre ne raggiungeva altri al bancone. In quel momento parlavamo del contrasto culturale che vivevamo con questo straordinario paese. Di come le coppie lì vivano la propria vita diversamente che in Europa, di come spesso, cioè, conducano la propria esistenza in sedi, per così dire, separate: lei per la maggior parte del tempo in casa, magari a guardare la televisione, o eventualmente fuori a divertirsi con le amiche; lui per la maggior parte del tempo fuori, ad ubriacarsi o a cazzeggiare coi colleghi, o, come in questo caso, con dei compagni di scuola. Parlavamo di come spesso il divertimento puro, lo svago vero e proprio, si possa realizzare lì solo con persone che si conoscono appena. Tutto ciò non avrebbe dovuto stupire Audrey. Noi avevamo conosciuto, in fondo, questo bizzarro mondo: questo universo delle forme, dove tutto è apparenza, dove le maniere non sono un’emulsione spontanea degli uomini verso altri uomini, ma un obbligo sancito da una qualche legge non scritta; dove ogni moto del corpo, ogni espressione del volto, ogni gemito emesso dalle corde vocali, non possono essere veri se non filtrati, o nascosti, da tutto un insieme di regole dell’etichetta, di gesti convenzionali, di espressioni gergali. Era un mondo, quello, che pareva a volte girare al contrario: dove il non agire era agire, volere il non volere, dove la vera essenza era l’assenza, e la pienezza del significato dell’essere si concentrava sommariamente nel concetto di vuoto.
Lei, dicevo, avrebbe dovuto sapere. Ma invece fu presa da chissà quale moto d’animo, e dopo aver guardato fissa nel vuoto per qualche minuto, le si iniziarono ad arrossire gli occhi, spuntarono le prime lacrime, finché non sbottò d’un tratto, ripetendo:
“I can’t do this”
Da lì passò qualche ora di sfogo. Lui all’inizio – con perfetta aplomb giapponese – aveva finto di non essersi accorto che lei piangeva, e aveva continuato imperterrito a bere con gli amici qualche metro più in là, sperando che tutto passasse il più in fretta possibile. Una scenata del genere, in mezzo a dei vecchi compagni di università, i propri pari… era una cosa indicibile. Poi si era lentamente trascinato verso il tavolo. Era iniziata una lunga discussione, della quale io e l’amico, nostro malgrado, ci ritrovavamo ad essere arbitri. Lei gli rinfacciava tutto: il non essere mai a casa, il non degnarsi di pulire la ben piccola stanza, il non interessarsi mai di come le mutande comparissero magicamente pulite e profumate nel cassetto della biancheria intima. Gli rinfacciava tutto, persino il non aver mai cucinato insieme: tutto tranne quella là, la fonte diretta, cioè, della sua gelosia. Lui si difendeva come poteva, supportato un po’ da noi altri che, vigliacchi, ci riconoscevamo nelle sue colpe.
Nelle ultime ore di quella nottata, lei si era ridotta ad una malinconica cantilena: era tutto un pianto, una moina, ogni parola di lui non faceva che peggiorare la situazione. Lui, alla fine, cercava solo di consolarla. A tratti la accarezzava sulle spalle, con il fare degli amici, quelli veri: poi però il suo sguardo si perdeva nel vuoto, come se stesse osservando chissà che cosa laggiù, lontano, sulla linea di un immaginario orizzonte.
Quella sera ero quasi certo che si sarebbero lasciati. Tornammo in taxi, forse alle tre o alle quattro del mattino. Tutti e quattro in silenzio, finché lui, un po’ ubriaco, si mise a cantare a squarciagola l’inno dell’azienda. Io e l’altro amico ridacchiavamo come idioti, mentre per fortuna lei già dormiva, completamente andata. Constatai ad un tratto che così come ci eravamo conosciuti, cantando prima dell’alba, così ci stavamo anche per lasciare: ognuno di noi diretto per sempre, solo, verso la prosecuzione della propria esistenza. Il legame sociale che stringeva me a loro, vale a dire lei, si era ormai infatti quasi definitivamente spezzato. Quando arrivammo a casa, scendemmo tutti eccetto l’amico di lui, che proseguiva nella corsa in taxi verso il proprio indirizzo. Io lo salutai con una stretta di mano, e forse entrambi non sapevamo se ci saremmo più rivisti.
Il giorno dopo, mi assicurai di lasciare l’appartamento di prima mattina: sia per l’imbarazzo del rimanere in casa, terzo in comodo di una coppia in separazione, sia per lasciare loro un po’ di spazio per eventuali ulteriori sfuriate. La mattina presto, in quella via di Kawasaki, il freddo gelava l’aria. Il silenzio era rotto soltanto dal rumore dei tacchi, che battevano ritmicamente sull’asfalto freddo: c’era per strada uno sciame di giapponesi che si muoveva a passo sostenuto verso la stazione del treno. Tutti che camminavano insieme, nella stessa direzione, in silenzio, ognuno di loro solo. L’atmosfera gelida di metà gennaio sembrava ghiacciare tutto, e si sarebbe detto che pure i legami, le poche relazioni invisibili che quegli uomini e quelle donne avevano intessuto tra loro nell’arco di una vita, anche quelli sembravano essersi ormai tramutati in sottilissimi cristalli, pronti a frantumarsi in mille pezzi al primo cenno di un tocco.