Soli, nella notte buia, in attesa. Tre uomini, in una macchina ferma. Fuori, i suoni di una foresta viva. Dentro, i rimbombi del motore acceso.
Ci eravamo fermati così, dal nulla, in mezzo a quella strada di montagna. Il nostro autista aveva veduto qualcosa: due occhi bianchi che spuntavano, nella nebbia, laggiù nelle profondità del bosco. Aveva recuperato, dal taschino di quella casacca logora che indossava, una torcia. Aveva estratto il pugno sinistro dal finestrino e ora lo puntava, fermo, dritto davanti a sé. Accese. Un fascio di luce fu scaraventato nell’oscurità. Leggeri, imperturbabili, miliardi di fotoni viaggiavano a trecentomila chilometri il secondo, trapassando l’aria gelida di una notte di fine febbraio. Si andarono a conficcare sul muso di una creatura, grande poco più di un gatto.
“San yang!”
gridò l’uomo, voltandosi verso di me che gli ero accanto. I suoi occhi erano illuminati di eccitazione pura. Quel suo volto rugoso, che aveva mantenuto un grugno inespressivo per tutto il viaggio fino ad allora, si era trasformato in qualche modo in una specie di sorriso, scaturito come da una gioia autentica, incontenibile, che manco un bambino allo scoprire dei pacchi, ammucchiati sotto l’albero la mattina di Natale.
“Bee-ee!”
fece poi. Si girò verso il mio compagno, che era rimasto seduto attonito nel sedile posteriore: ripeté il verso anche a lui. “Bee-ee!”. Pareva fosse una capra. Una pecur’e muntagn’, come la descrivono I cinesi: 山羊, shan yang, due parole che l’autista aveva storpiato e sputato insieme in un unico sibilo.
In realtà, quella notte non dovevamo trovarci lì. Il piano era di attraversare Taroko prima del calar del sole, e di giungere all’albergo in serata. Ma quel paesaggio ci aveva come trattenuti. Le creste villose delle montagne, bagnate dagli ultimi raggi del giorno, sembravano narrare, con i loro picchi e le loro discese drammatiche, le glorie di un’antichissima guerra. I fianchi scivolavano ripidi verso valle, coperti in principio da un fitto strato di palme, radici e canne di bambù, poi improvvisamente nudi al sopraggiungere del canyon. La terra rivelava, come segretamente, il proprio ventre di roccia viva.
A tramonto inoltrato intraprendevamo finalmente la tortuosa strada che conduce al passo di Wuling, nel cuore dell’isola. Al passo di trenta, forse quaranta chilometri orari, la nostra Nissan di almeno vent’anni si addentrava solitaria lungo quella carrettiera deserta, mentre il calore di un’amicizia passata riscaldava le nostre membra stanche dal giorno di viaggio. Parlando, rifacevamo il mondo. Non è forse un piacere, quando un amico giunga a trovarci da lontano? Guidavo già da un’ora e mezza, lungo il dorso di quelle montagne, con Andreas seduto accanto. E mentre con la mano sinistra aggrappavo saldo il volante – onde evitare il balzo nel vuoto che avevamo notato raffigurato in un segnale stradale particolarmente esplicito – con la destra affondavo le dita in un sacchetto di ramen istantaneo sbriciolato, snack gusto pollo che avevamo acquistato in un 7/11 qualche ora prima. Lui mi parlava, sorseggiando di tanto in tanto da una bottiglietta di caffelatte freddo.
Poi la strada s’era arrestata.
“CHIUSO PER LAVORI IN CORSO”
diceva il cartello in cinese. La montagna – io me n’ero scordato – era venuta giù un anno prima. Un mattino d’autunno, col terremoto: aveva fatto due morti.
L’autista l’avevamo reclutato di lì a poco. Ci eravamo fermati nel primo posto trovato sulla strada. Era una specie di baracca di lamiere incastrate l’una sull’altra: sembrava stare in piedi per miracolo. Dall’ingresso – o meglio, da un’apertura tra le lamiere – fuoriusciva la luce bluastra di una lampada elettrica appesa al soffitto. All’interno si potevano udire le risate rauche di una squadra di operai in pausa, tutti bevuti da far schifo. L’aria, gelida e umida di nebbia, era impregnata da un lezzo putrido, che non si capiva fosse merda o fango od entrambe le cose. I cani da guardia avevano iniziato ad abbaiarci contro.
“Basta pagare una 小费”
aveva detto una ragazza dopo aver ascoltato la nostra situazione. Era spuntata fuori da quella baracca di ubriachi, come quasi un miraggio. Indossava un pigiama rosa, logorato qua e là da aloni d’unto scuro. Il suo volto mi appariva confuso nella penombra, ma i due iridi, incastonati come due onici in quegli occhi grandi, brillavano di una tale energia che pensai non dovesse aver superato i vent’anni. In basso, dietro di lei, si nascondeva un pargolo. Frignando e mugugnando, il bimbo ci osservava a metà fra l’infastidito e l’incuriosito. Una 小费, in cinese, è una modesta somma di denaro, una mancia: volta in questa circostanza a persuadere il capo operaio a interrompere il suo ritrovo mondano, e a scortarci oltre il tratto di strada bloccato. Una tangente, ecco. “Quanto?”, chiesi io.
“看你的心里”
rispose lei. “Quanto ti senti”.
Il capo era nel frattempo sceso dall’auto, con la torcia ed il telefono in mano. Era ormai passato già qualche minuto. “I think he wants to show us the monkeys!”, esclamai io. Guardavamo entrambi il vecchio aborigeno con un sorriso incerto, attendendo una spiegazione del perché ci fossimo fermati, o quanto meno sperando che, al belato di prima, avesse aggiunto anche qualche parola per delucidarci su quanto stesse accadendo. Lui, con tutta calma, si era acceso una sigaretta, come a comunicare che di lì, a breve, non ci saremmo smossi.
“But that’s not a monkey. That’s obviously a cat!”
rispose Andreas. Scoppiammo entrambi a ridere. “It’s a fucking cat!” sbottai io, non riuscendo a soffocare uno stridio nelle ultime sillabe di quella frase, con la cassa toracica che mi si comprimeva per l’assenza di fiato.
“Why are we not moving?”
continuò Andreas, allungando il collo e cercando di nuovo con lo sguardo quei due piccoli occhi bianchi, che erano sempre rimasti immobili, nell’oscurità umidiccia del bosco.
Ad un tratto, sentimmo il rumore di un camion. Poi, altri due ragazzi apparvero dal nulla: imbracciavano dei fucili.
“Kuai, kuai, kuai! Hai zai, hai zai, hai zai!”
gridò il capo. I due aborigeni corsero verso il limitare della foresta: poi, come due moschettieri, mirarono un punto all’interno del bosco. Tre colpi. Più che a una battuta di caccia, ci pareva di aver assistito ad una fucilazione.
Vollero mostrarci il premio: era un cerbiatto di Formosa, dal manto color nocciola. Mentre lo reggevano per gli zoccoli posteriori, rivoli di sangue scuro gli si sbrodolavano giù dal ventre e dal muso. Era uno spettacolo immondo. Gli occhi neri, che ancora luccicavano, sembravano fissarci mentre lentamente sprofondavano nell’oblio senza ritorno.
Dieci minuti dopo, valicavamo l’ultima barriera del cantiere. La nebbia si era diradata, ed il pallore della luna illuminava alcuni alberi di ciliegio sul bordo della strada. I primi Sakura della stagione si disperdevano come tante chiazze di rosa caldo sull’asfalto nero e lucente.