Dopo cinque settimane di attese, scambi di email, richieste, ammende e certificazioni, eccomi finalmente a Londra. L’ottenimento del visto ha comportato una procedura probabilmente tra le più complicate che mi sia mai ritrovato ad affrontare finora. Il permesso con cui lavoro richiede infatti, in aggiunta alle solite formalità, la certificazione del livello B1 di lingua inglese. Richiesta sicuramente onesta e almeno in apparenza elementare, ma che ha portato però a posticipare non di poco il mio ingresso in questo, ahimè, assai piovigginoso Paese. È naturale che un attestato d’esame di lingua, come quelli dei famigerati “Toefl” ed “Ielts” (alle cui sessioni ebbi la delizia di partecipare, rispettivamente negli anni 2018 e 2022), sarebbe stato del tutto sufficiente a sbrigare il banale compito. Senonché, come sarebbe quasi superfluo chiarire, le suddette certificazioni abbiano validità invariata di anni due, né giorno di più né giorno di meno: intervallo, questo, calcolato scientificamente dagli esaminatori, cosicché ogni volta ci si ritrovi a dover effettivamente fare utilizzo delle attestazioni ottenute, queste risultino sempre scadute al più da una o due settimane. E cosicché il povero esaminato si ritrovi ogni volta a dover ripetere daccapo tutta la tarantella: iscrizione all’esame, con annessa ricerca disperata di una data disponibile; cambio di tutti i piani di vacanze estive in vista dell’esame; seduta dell’esame stesso; richiesta, infine, dell’emissione dei risultati con servizio prioritario (data l’urgenza). Ed è così che pam! due o trecento euro partono ogni volta come un nonnulla.
Ed è precisamente in rivolta a questa sorta di dittatura degli esaminatori di inglese che io, come un nuovo Cola di Rienzo, mi ersi, facendomi valere, orgoglioso, dei miei buoni diritti di laureato, e tirando in ballo i due diplomi universitari che avevo conseguiti cinque anni orsono e si dà il caso, proprio in lingua inglese, e che dovevano pertanto essere sufficienti a dimostrare il mio livello B1 di inglese. Ma si sa che un uomo che da solo si metta contro alla Storia è destinato al fallimento. E proprio come fu, ai suoi tempi, destino del tribuno romano quello di scontrarsi con le grandi istituzioni del suo mondo, e di perdere, così il mio, e mi scontrai con le segreterie delle università, quelle nemiche potenti, nella battaglia contro le quali tutti gli studenti hanno prima o poi versato lacrime e sangue. Inutile a dirsi: avendo scomodato ben due università e, tra un ente certificatore del Regno Unito ed un’agenzia di avvocati di Londra, in totale una valanga di scribacchini, ed essendo io unico mediatore delle ambigue comunicazioni di questi quattro interlocutori parlanti tre lingue diverse, la mia partenza non poteva che essere ritardata di almeno un paio di settimane.
Come se ciò non bastasse, fu al nostro arrivo all’aeroporto di Gatwick che scoprimmo che il mio bagaglio e quelli di altri quattro o cinque passeggeri erano andati dispersi (lasciati a Milano, si seppe poi), incidente che mi costrinse non solo a rimandare l’ingresso in ufficio di qualche giorno, ma anche ad indossare alcuni dei vestiti di Sandy per andare a far spesa. E fu così che trascorsi il mio primo giorno a Londra all’Ikea, in pantaloncini femminili e scarpe da barca. Sandy cercava di sanare il mio inevitabile sconforto, ricordandomi che il grave baule che era andato disperso, pesante più di venti chili, mi sarebbe stato direttamente consegnato a casa, evitandomi così la pena di doverlo trascinare personalmente per le vie di Lewisham. Una fortuna nella sfortuna, come si suol dire.
Ma eccomi, infine, nell’uggiosa Londra. La città ci ha accolti, in realtà, nel fiore dei suoi giorni. Durante la prima settimana dall’arrivo, il sole splendeva radioso in un cielo quasi azzurro. La calura, che avrebbe provocato sudore e malessere in una città d’Italia, era alleviata qui da una dolce brezza estiva, che suscitava quasi brividi di freddo, se per errore invece di sdraiarsi al sole come fanno qui, ci si fosse seduti da qualche parte all’ombra, come si fa da noi. Abbiamo passato gli ultimi pomeriggi d’estate nel giardino dietro casa, stendendo un telone sull’erba ancora verde. Abbiamo trascorso il tempo leggendo, sorseggiando drink e chiacchierando in cinese. Per nostra fortuna, il mio secondo coinquilino, Stefan, è un ragazzo tedesco-malesiano cresciuto a Pechino. Il suo perfetto mandarino, che risente di tutti gli influssi del riconoscibile accento della capitale, mi ha salvato dal dover riassumere e tradurre ogni singola nostra conversazione dall’inglese al cinese, e viceversa. Esercizio, questo, inizialmente piacevole ma che si rende ben presto estremamente tedioso. Sono grato che, anche nei giorni che trascorrevo interamente in ufficio, Sandy abbia avuto qualcuno in casa con cui parlare la propria lingua.
Non che ci fosse da tenerla in casa. Sandy a Londra è stata incontenibile. Esplorava la città come una bambina che avesse messo piede fuori di casa per la prima volta. Mentre sbrigavo le prime faccende che avrebbero determinato il mio ingresso formale in azienda, ricevevo fotografie da svariati musei di Londra, dove si era recata di sua iniziativa, e da sola. Trovo in essa un ammirabile ed insaziabile bisogno di indipendenza, di libertà, che è anche, credo, la vera essenza del fascino che ancora provo per lei. Questa ragazza taiwanese, che solo da poco ha ricominciato a parlare inglese e che si è ritrovata così, un giorno, d’un tratto dall’altra parte del mondo, ha avuto il coraggio e la volontà di avventurarsi da sola in una città come Londra: gigantesca, multietnica, caotica, un posto che avrebbe probabilmente scoraggiato da qualsiasi avventura la maggior parte degli altri taiwanesi (e non) che conosco. Eppure lei era lì, ad aggirarsi tra mummie egizie, antichità orientali e falsi di colonne romane. La sua è una personalità che non solo non teme il rischio, ma ne è anzi attratta, essendo pronta ad accettarne le conseguenze talvolta tragiche; proprio come una di quelle falene estive che volano, inebriate e folli, attorno alla fiamma di una candela accesa. Ed è questo suo carattere -ne sono ormai pressoché convinto- ad averla resa già una parte essenziale della mia vita, una di cui non potrò fare a meno né ora né in futuro, a prescindere dalla distanza fisica che ci separerà.
Insieme, e sempre per sua iniziativa, siamo stati spettatori di uno degli spettacoli per cui questa città è tanto celebre: il musical Hamilton, recitato al Victoria Palace, del quale Sandy mi aveva mostrato con esaltazione alcune clip già più di un anno fa. Allora come oggi, posso affermare in tutta sincerità di non aver compreso completamente il fascino che così tante persone in ogni parte del mondo condividono per questo bizzarro genere di spettacolo, a metà fra un concerto, un balletto ed una rappresentazione teatrale. Ma vedere la gioia e lo stupore negli occhi di lei è stato per me il vero premio. Già tempo fa, sapendo che saremmo stati insieme per un po’ di tempo a Londra, mi ero deciso a regalarle un biglietto per il suo compleanno. E per via della stuoia di vicissitudini che avevano scombinato i piani del mio arrivo qui, ero terrorizzato all’idea di perdere lo spettacolo e privarla di questa esperienza. Alla fine, il musical è piaciuto anche a chi come me non lo comprendeva interamente. C’è qualcosa di sensazionale nella capacità di quegli attori di cantare, danzare e recitare allo stesso tempo. E per chi come me non sia particolarmente investito nel genere musicale o nella trama, resta comunque da apprezzare l’innegabile splendore della performance.
Quello è stato il vero epilogo della nostra breve vacanza a Londra. Pochi giorni dopo, Sandy partiva infatti per tornare a Taipei. La accompagnai alla stazione di Farringdon, dove passa il treno diretto all’aeroporto. Arrivati, notai in lei una certa esitazione. Sembrava essersi improvvisamente dimenticata di come si controlli una tabellone degli orari, di come si usi un biglietto, perfino di come si scenda una rampa di scale per arrivare ai binari. La aiutai per un po’. Ripetemmo insieme per due o tre volte a che binario dovesse salire sul treno, a che stazione dovesse scendere, e a quale terminal dovesse dirigersi per l’imbarco. Poi capii che tutte queste sue incertezze non erano altro che un segno della sua reticenza a partire, a lasciarmi andare. Ne fui commosso e onorato. La abbracciai, e tutte le lacrime, che avevo trattenuto così bene fino ad allora, mi cominciarono a sgorgare dagli occhi.
Fu una volta solo e sulla via del ritorno che iniziai ad apprezzare il vero sapore della mia nuova vita qui. Una vita connotata dalla convivenza con due amici, e quindi in un certo senso meno solitaria di quella che conducevo nel mio piccolo appartamento a Taipei. Ma d’altra parte, anche un’esistenza priva di Sandy, la persona che era stata la mia compagna di vita durante tutto lo scorso anno in Asia. Questo sarà l’aspetto più difficile da sopportare, ma ho fiducia nella mia capacità di affrontare serenamente questa sorta di autoimposta solitudine. D’altronde, è proprio l’esistenza di Sandy a risparmiarmi l’ingrata ricerca, in questo luogo tanto freddo, distaccato ed insondabile, di una nuova compagna di vita; compito questo al quale la maggior parte dei miei coetanei -una volta conclusasi l’esperienza universitaria ed iniziata quella lavorativa- sembra dedicare la maggior parte delle proprie energie.
Mentre passeggio per le vie della cosiddetta city di Londra, cioè di quel centro urbano i cui confini erano un tempo delimitati dalle mura di cinta romane, ho reminiscenze della lontana Tokyo. C’è in questa ed in quella città una freddezza, un silenzio, che nei miei due anni a Taipei avevo quasi dimenticato. Le larghe strade taiwanesi, trafficate di scooter che come sciami d’api ronzavano verso gli uffici di Neihu, sono state sostituite da vicoli a cui solo pedoni e ciclisti hanno accesso. In questi vicoli, il rombo degli autobus e dei tassì neri non arriva. Come a Tokyo, l’aria è permeata dall’eco di una moltitudine di tacchi di scarpe, che battono ritmicamente sull’asfalto del marciapiede. Chiudendo gli occhi, si avrebbe l’impressione di trovarsi in mezzo ad una miriade di precisissimi metronomi, tutti battenti all’unisono eppure ognuno con una frequenza diversa. È la città febbrile dei pendolari, le cui facce inespressive, di cento razze e religioni diverse, si ripetono tutte uguali lungo Cannon Street, infine confondendosi l’una con l’altra, a perdita d’occhio. Contrastano con i loro volti quelli degli operai, che si occupano della manutenzione delle strade o della pulizia dei giganteschi palazzi di vetro e acciaio in cui noialtri lavoriamo. Gli operai sorridono: l’umiltà del loro lavoro non glielo impedisce. Al contrario, è forse proprio la consapevolezza del proprio stato sociale a renderli, se non più liberi, forse almeno più sereni di noi.
In questo enorme quartiere di uffici, dove si ha l’imbarazzo della scelta se alla pausa pranzo voler mangiare vietnamita, curdo o sri-lankese, mi stupisce imbattermi in un posto come il Beppe Café. La sua insegna, con una tipografia in stile anni ‘80, mi cattura subito. All’ingresso sono accolto da un’atmosfera indescrivibile. I clienti più disparati, dal manager vestito di tutto punto all’operaio in divisa, si stringono intorno ad una accozzaglia di tavolini minuscoli, incastrati miracolosamente nel piccolissimo locale. L’aria è impregnata del burro con cui vengono fritte le uova ed il bacon. Una ragazzina di nemmeno vent’anni mi accoglie e mi fa sedere, mentre fuma di nascosto dalla sua sigaretta elettronica. Apro il menù e scopro, con grandissima sorpresa, che qui oltre al classico English breakfast vengono servite anche le ciabatte farcite di mozzarella e verdure grigliate. Come se si fosse in un bar della stazione di Milano. È stato Andreas a spiegarmi in seguito che il caffè a cui ero stato è una vera e propria istituzione, gestita probabilmente da italiani divenuti britannici da al massimo due o tre generazioni. Mi rendo conto di aver scovato un’autentica perla per le mie colazioni future.